Se si fugge per un disastro ambientale

Milon è nato e vissuto a Dacca, ma lo scorso anno è dovuto scappare dal Bangladesh. Non voleva andare via da casa sua Milon, appena 20 anni. Ma troppe piogge, troppi uragani. Il Climate Change.   

La sua famiglia ha dovuto vendere i terreni: «Facciamo fatica a trovare un piatto di riso per andare avanti e continuiamo a indebitarci». Quando è solo fango, la terra non la vuole nessuno. 

Per questo, il Tribunale de L’Aquila, gli ha da poco riconosciuto la protezione umanitaria per motivi ambientali. Nell’ordinanza, esplicito il riferimento alla povertà come conseguenza socio-economica di cambiamenti climatici, deforestazione e land grabbing. 

Pensiamo che storie come quelle di Milon accadano lontano, fuori dalla portata del nostro mondo post-digitale e smart (come ricordava Bruce Sterling sull’Atlantic). Invece viviamo in un mondo globale e interdipendente, lo sappiamo, lo abbiamo voluto e cercato. Un sistema economico in cui non solo i prodotti, i cibi fuori stagione, ma anche le scorie di un paese finiscono in un altro, possibilmente in paesi che chiamiamo in via di sviluppo, quando non sottosviluppato. Nell’occidentale, in ognuno di noi, persiste la convinzione che l’altro di cui parlava Conrad, lo straniero, sia in qualche modo inferiore. E che le sventure che capitano là, in quelle terre selvagge, non ci riguardino e non lo faranno. È un errore di dati. 

Il Bangladesh ha 163 milioni di abitanti, un Pil pro-capite di 3.900 dollari l’anno, emette 370 kg di CO2 l’anno, in pratica niente (se si considera che, in questa particolare classifica, l’Italia detiene il 45° posto e produce 6,7 tonnellate annue ndr). Secondo il rapporto della Banca Mondiale Turn Down the Heat: Climate Extremes, Regional Impacts, and the case for resilience entro il 2070 un milione e mezzo di persone in Bangladesh subiranno le conseguenze delle inondazioni. Dove andranno?  

 

Gli ultimi dati UNHCR stimano che nel mondo i rifugiati sono 14-15 milioni, per lo più ospitati nei Paesi extraeuropei. L’Europa e l’Italia - stime 2015 - ne hanno accolti, rispettivamente, poco più di 3 milioni e più o meno 100.000.  

 

Molto si parla di migranti con un’accezione negativa. In Italia, la comune percezione della presenza degli immigrati sulla popolazione parla di stime attorno al 30%. In verità sono l’8% (fonte Ipsos-Mori).  

La questione dei rifugiati climatici - che non hanno ancora uno status giuridico – partirà da alcune remote nazioni del mondo che si trovano già a fronteggiare, come Milon, il nostro futuro. Un problema socio-economico, oltre che psicologico/identitario, lo sradicamento: essere costretti ad andar via dalla propria casa, dall’habitat che è habitus, dalle proprie abitudini - cfr. da Simone Weil alla psicologia dell’esilio, a cui va trovata una soluzione.  

 

Il nostro pianeta ha 4,5 miliardi di anni. Gliene rimangono altri 4,5 prima che il Sole, diciamo così, si spenga o esploda. Gli uomini sono apparsi sulla Terra da relativamente poco. Le condizioni climatiche che stiamo stravolgendo sono niente rispetto a quanto il cosmo deciderà per noi. La Terra fino a quel momento sopravvivrà, così come ha fatto con le glaciazioni, alle eruzioni vulcaniche. Non è il pianeta che va salvato. È la specie umana. 

 

 

Secondo il Global Report on Internal Displacement 2016 nel mondo ci sono stati 40,8 milioni di sfollati interni. Su 28 milioni 19,2 milioni per calamità naturali. Negli ultimi 8 anni il totale di sfollati interni collegati a disastri naturali è un numero che si aggira intorno ai 200 milioni, tra le aree più colpite India: 3,7 milioni; Cina: 3,6; Nepal: 2,6 milioni; a cui si dovrebbero aggiungere le migrazioni forzate per cause connesse a fattori di origine antropica.  

 

 

 

Per il Global Estimates 2015: People displaced by disasters, dal 2008 le persone costrette ogni anno a migrare a causa di calamità naturali sono in media 26,5 milioni. L’UNHCR-Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati e l’IOM-Organizzazione Internazionale per le Migrazioni parlano di 200-250 milioni di profughi ambientali entro il 2050. Una media di 6 milioni l’anno.  

 

   

 

   

 

Viviamo nell’Antropocene, l’Era geologica in cui i modelli di produzione e consumo sono in grado di determinare gli equilibri, e gli squilibri, ambientali globali. Lo scorso anno la concentrazione di CO2 nell’atmosfera ha raggiunto le 400 parti per milione, un livello che l’atmosfera del nostro Pianeta non registrava da 800.000 anni.  

 

 

 

Secondo gli ultimi studi, qualora le emissioni di CO2 continuassero ad aumentare, nei prossimi decenni il livello dell’oceano salirebbe di oltre un metro entro il 2100. Per gli esperti, la situazione peggiorerebbe dal XXII secolo. A quel punto, le comunità residenti nelle isole rimarrebbero tagliate fuori: che ne sarà degli abitanti di Lampedusa, della Sardegna interna, dell’Isola d’Elba?  

 

  

 

  

 

Per la Banca Mondiale infatti, a un aumento medio della temperatura globale di 4°C, corrisponderebbero incrementi molto più consistenti in alcune regioni del mondo: a maggior rischio il Mediterraneo, il Nord Africa e il Medio Oriente.  

 

 

 

Senza scomodare le visioni catastrofiste della fantascienza post-apocalittica, a Miami hanno già dovuto innalzare il livello del manto stradale per evitare che l’acqua sommerga il centro città (su questo di vedano il documentario Before the Flood di Leonardo Di Caprio - National Geographic prodotto da Martin Scorsese; e l’articolo del New York Times).  

 

 

 

Nonostante la fuoriuscita di Trump dall’Accordo di Parigi dalla COP21, in America le inondazioni sulle coste americane si stanno susseguendo disastrose negli anni: i tornado Katrina (2005, circa 2.000 vittime) e Sandy (2012, oltre 60 miliardi di dollari di perdite economiche) sono per lo più effetto dei gas serra emessi dalle attività umane. Lo stesso flusso migratorio dal Messico agli Usa è in parte imputabile alla siccità conseguenza del processo di desertificazione del territorio ex Maya.  

 

  

 

  

 

La Commissione Europea sta tentando di introdurre lo status di rifugiato climatico nel più ampio dibattito delle migrazioni, questione sempre più politica nell’agenda di molti paesi, e governi, a livello internazionale.  

 

 

 

Per un inquadramento del concetto, Greenpeace ha stilato il rapporto Climate Change, Migration, and Displacement (the Understatement disaster). Racconta Luca Iacoboni, Responsabile Campagna Energia e Clima: «I cambiamenti climatici stanno acuendo alcuni fattori che spingono le persone a migrare: eventi meteorologici estremi sempre più frequenti, guerra, problematiche di diritti umani che vedono spesso tra le concause il controllo e l’estrazione di combustibili fossili».  

 

 

 

Nel 2018 ricorre il 70° anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani, continua Iacoboni: «Un mondo 100% rinnovabile sarebbe, tra le altre cose, un mondo in cui la pace sarebbe più facile e le migrazioni meno necessarie». Greenpeace è intervenuta in situazioni specifiche, per esempio nel continente asiatico: «Dove le conseguenze dei cambiamenti climatici sono drammatiche e ci sono migliaia di famiglie che ogni anno perdono tutto e sono costrette a ricominciare da capo la propria vita». Come nel caso di Milon. Per questo, il Responsabile CEC Greenpeace: «Stiamo chiedendo ad alcune delle aziende più inquinanti del mondo di assumersi le proprie responsabilità. Questa campagna internazionale è legata al concetto di climate justice», ed è partita proprio dall’Asia.  

 

   

 

Il punto è l’approvvigionamento dell’energia che serve all’uomo per le proprie attività. Per il premio Nobel per la pace 2017 ICAN Campagna internazionale per l'abolizione delle armi nucleari esiste una correlazione climate change-nucleare, Iacoboni aggiunge: «Carbone, petrolio e gas sono la causa primaria dell’emissione di CO2 ma il nucleare è una falsa soluzione che porta con sé un’enormità di problemi e incognite a livello ambientale e non solo». La soluzione c’è, e indica lo studio Energy Revolution 2015 anche se: «La produzione di energia non è l’unico fattore che deve essere tenuto sotto controllo, anche la deforestazione, l’allevamento intensivo e l’agricoltura sono elementi chiave per contrastare i cambiamenti climatici». 

 

  

 

Un impegno che ci riguarda, tutti: «I poli sono una cartina al tornasole dello stato di salute del Pianeta». L’impatto delle navi sull’ambiente include emissioni di gas serra pari al 5% del livello globale. L’IMO-Organizzazione marittima internazionale prevede un aumento del 72% entro il 2020 in assenza di provvedimenti, per Iacoboni: «Lo scioglimento dell’Artico sta aprendo nuove rotte, ci sono aziende che vogliono andare a trivellare in cerca di petrolio e gas in zone dove prima c’erano i ghiacci. Gli effetti dei cambiamenti climatici sono un enorme pericolo per le persone, ma diventano un’ennesima opportunità di business per le aziende che li causano e non ne pagano le conseguenze».  

 

E ancora: «Il continente asiatico è uno di quelli che oggi subisce i maggiori impatti di eventi meteorologici estremi sempre più frequenti: super tifoni, alluvioni, siccità, costringono ogni anno all’emergenza decine di migliaia di persone in Asia. E la stessa America soffre oramai da anni di una gigantesca siccità (…) p er non parlare delle isole del Pacifico che stanno già prevedendo piani di migrazione di massa per il rischio che la loro terra finisca interamente sotto il livello del mare, o della barriera corallina australiana che sta subendo fenomeni di sbiancamento mai visti prima (e la creazione di un enorme progetto legato al carbone proprio nei pressi della stessa barriera corallina)».  

 

Infine, chiude il responsabile di Greenpeace, sulla stessa linea della Banca Mondiale: «L’Italia è uno dei Paesi europei più a rischio. Intere zone costiere, città come Venezia, potrebbero finire sott’acqua nei prossimi decenni. Anche da un punto di vista economico gli impatti dei cambiamenti climatici sono oggi una voce di spesa molto grande. Già nel presente, senza dover pensare al futuro, gli impatti dei cambiamenti climatici sono più che visibili nei confini nazionali, basti pensare alle enormi siccità nell’area del Po o in Sicilia, e alle alluvioni che ormai hanno una cadenza stagionale. Tutto ciò ha grosse ripercussioni su alcuni settori-chiave dell’economia italiana, come il turismo e l’agricoltura».  

 

Nell’aestas horribilis 2017 le temperature a luglio sono state di 1,2 gradi superiori alla media con il 42% di precipitazioni in meno, ciò ha causato danni all’agricoltura per oltre 2 miliardi di euro: miele -50%, vino – 26% (fonte: Coldiretti). Succederà ancora? 

 

Non è lontano. È qui, adesso. Sono le storie del nostro clima, della terra sulla quale costruiamo la nostra casa. Siamo tutti migranti climatici. 

 

Alcuni dei dati utilizzati per la costruzione di questo articolo si trovano sul rapporto Crisi Ambientali e migrazioni forzate - A Sud Onlus 2016 consultabile dal sito 

 

Per ulteriori approfondimenti, si veda anche il Rapporto annuale 2017-2018 di Amnesty International (Infinito Edizioni). 

 

di MAURO GAROFALO

 

FONTE: http://www.lastampa.it/2018/06/01/scienza/se-si-fugge-per-un-disastro-ambientale-FVK0ze46jLIBslDYjOIctI/pagina.html