La risposta ambientale è sempre quella più conveniente, anche dal punto di vista economico

Con trecentotrentasei voti a favore, trecento contrari e tredici astensioni, è arrivato, seppur a fatica, il primo lasciapassare a favore di quella che è considerata la proposta chiave del Green deal, il pacchetto di norme presentato dalla Commissione europea contro la crisi climatica. 

 

Il Parlamento europeo ha infatti approvato la Nature restoration law, una proposta di legge che impone ai Paesi membri l’ambizioso obiettivo di attuare, entro il 2030, misure a tutela e ripristino di almeno il venti percento di tutte le aree terrestri e marine dell’Unione europea. Così da fermare, da una parte, l’eccessivo sfruttamento commerciale delle risorse naturali, e provare a recuperare gli ecosistemi danneggiati dall’altra. Non sarà semplice, visto che più dell’ottanta per cento degli habitat europei è in cattive condizioni, e che le zone umide si sono praticamente dimezzate.

 

Nonostante la nuova legge, per essere considerata tale, dovrà affrontare ancora un altro negoziato (quello con il Consiglio Ue), il fatto che esista e che sia arrivata fino a qui è indubbiamente un ottimo traguardo. Al suo interno, infatti, sono contenute misure che, se superassero l’ultimo gradino, farebbero rifiatare l’ambiente, proteggerebbero la biodiversità e contribuirebbero a garantire la resilienza e la sicurezza dell’approvvigionamento alimentare in tutto il mondo. E che, grazie alle quali, potremmo pensare concretamente di avvicinarci agli obiettivi climatici imposti da Bruxelles. 

 

Sarebbe, tra l’altro, la prima legislazione in assoluto a mirare esplicitamente al ripristino della natura, in tutte le sue sfaccettature, nell’intero continente: dalle foreste ai terreni agricoli, dagli ambienti marini agli ecosistemi d’acqua dolce. Senza dimenticare le città. In caso di esito positivo, la Nature restoration law si applicherebbe a tutti gli Stati membri, e andrebbe ad integrare le leggi in materia già esistenti su ogni singolo territorio. L’obiettivo primo e principale rimane quello di prendersi cura di almeno il venti per cento delle aree terrestri e marine entro il 2030, e di estendere le misure di ripristino alla restante percentuale entro il 2050. 

 

Per riuscirci, secondo la Commissione, entro la data più vicina si dovrebbe innanzitutto arrestare il declino delle “popolazioni” di impollinatori e favorirne, al contrario, la proliferazione. A tal proposito è previsto che in tutte le aree considerate “sensibili” per gli insetti sia imposto il divieto di utilizzo di pesticidi. Si dovrebbe poi evitare di intaccare in alcun modo gli spazi verdi urbani: anzi, è auspicabile che questi aumentino del cinque per cento entro il 2050, e che ogni città sia dotata di almeno il dieci per cento di copertura arborea. Più in generale, gli Stati dovrebbero favorire il ripristino di quanta più biodiversità possibile, sia essa marina o terrestre, adottando misure specifiche. 

 

Ma quello che più conta, ad oggi, è l’esito favorevole del voto in plenaria: il Parlamento europeo, che nelle prossime settimane dovrà discutere dell’approvazione della legge con Commissione e Consiglio, ha dimostrato da che parte sta (un’eventuale bocciatura avrebbe praticamente stoppato l’intero iter).

 

Un segnale importante, soprattutto se consideriamo che arrivare fino a qui è stato tutt’altro che semplice. «Questa legge potrebbe essere davvero un punto di svolta per la natura, per il clima e per l’economia, anche alla luce degli ultimi disastri ambientali che abbiamo vissuto in prima persona», come ha spiegato a Linkiesta Carlotta Bianchi, responsabile Relazioni istituzionali di Wwf Italia. Com’è noto, però, non sono mancate le polemiche, le speculazioni e le opposizioni.

 

Primo fra tutti il Partito popolare europeo (Ppe), gruppo di centrodestra più numeroso e più vecchio del Parlamento europeo. Questo aveva già fatto naufragare l’approvazione della legge lo scorso 15 giugno, quando in sede plenaria, oltre ad essersi opposto fermamente, aveva lanciato una campagna allarmista, spinta dalle pressioni di associazioni di categoria contrarie al provvedimento. 

 

Manfred Weber, capogruppo del Ppe, ha più volte sostenuto che tale normativa danneggerebbe economicamente agricoltori e pescatori. Un pensiero condiviso anche da Gilberto Pichetto Fratin, ministro dell’Ambiente italiano. Infatti se l’iter di approvazione del testo è stato ed è piuttosto travagliato, la colpa è anche del nostro governo. 

 

Quando lo scorso 20 giugno il Consiglio affari energia dell’Unione europea si è riunito a Lussemburgo per sottoscrivere un accordo sulla Nature restoration law, l’Italia si è schierata tra gli Stati non firmatari. Un segnale negativo per un Paese come il nostro in cui l’ottantanove per cento degli habitat di interesse comunitario si trova in uno stato di conservazione sfavorevole. 

 

A poco – o niente – è servita la richiesta rivolta da ventotto associazioni a Pichetto Fratin perché si schierasse a favore della proposta. Al contrario, durante il Consiglio Ue del 28 giugno, il ministro di Forza Italia ha preferito evidenziare i rischi della proposta per l’agricoltura e la pesca, ribaditi successivamente anche dai colleghi di centrodestra. 

 

Basterebbe leggere pochi dati e alcuni studi autorevoli per accorgersi che, anche nel caso in cui l’interesse sia tutto rivolto al profitto, la salvaguardia dell’ecosistema sarebbe comunque la scelta migliore da portare avanti. La Commissione Ue, per esempio, stima che per ogni euro investito nell’ambiente ne tornerebbero indietro almeno otto di benefici, e che tra il 1997 e il 2011 la diminuzione di biodiversità ha rappresentato una perdita annua tra i 3,5-18,5 trilioni di euro.

 

In generale, il ripristino delle zone umide, dei fiumi, delle foreste, delle praterie, degli ecosistemi marini, degli ambienti urbani e delle specie viventi in Ue è un investimento fondamentale ed economicamente vantaggioso, su più fronti: dalla salute fisica alla sicurezza alimentare, dalla resilienza climatica, al benessere dei cittadini e dei lavoratori. 

 

È, al contrario, il degrado del suolo e la perdita di impollinatori che gli impiegati nel settore devono temere: «Il mito che la produttività possa essere minacciata da azioni di ripristino della natura altro non è che la narrazione dell’industria agroalimentare e dei suoi interessi acquisiti per opporsi a qualsiasi misura ambientale», ha spiegato Andrea Goltara, direttore del Cirf (Centro italiano riqualificazione fluviale) al quotidiano Domani. 

 

Difatti, anche adottando lo stesso punto di vista antropocentrico utilizzato dagli oppositori, quella ambientale rimane la risposta più “conveniente”. Punto primo: più aree naturali, richiamano più turismo, e quindi più posti di lavoro. E poi, per logica, un suolo che sta meglio è più in grado di trattenere acqua e renderla disponibile per le sue colture, che saranno ancora più abbondanti e sane, e sarà più resistente a siccità ed eventi meteorologici estremi. 

 

Così come aree naturali più vaste e ripristinate attireranno molti più impollinatori, che favoriranno la nascita di nuova vegetazione. Lo stesso vale per il mondo marino. Questo, se rispettato, riuscirà a ripopolarsi di molte più piante e pesci – di cui, ricordiamolo, campano gli stessi pescatori contrari alla legge.

 

Non solo, ripristinare torbiere, foreste e praterie può contribuire all’assorbimento di milioni di tonnellate di CO2: un processo di cui abbiamo necessariamente bisogno per arrestare le conseguenze della crisi climatica, che ha un impatto negativo sia sulla produzione (quantitativamente parlando) sia sull’accesso al cibo. E quindi sui prezzi di vendita. Tirando le somme, concepire il ripristino della natura come un onere economico significa avere una visione miope. 

 

di Gloria Ferrari

 

Fonte https://www.linkiesta.it/2023/07/nature-restoration-law-benefici-economici-crisi-climatica/